Negli ultimi anni, le nuove tecnologie e le conoscenze scientifiche hanno trasformato il mondo dello sport, con l’obiettivo di potenziare le prestazioni degli atleti. Tuttavia, il complesso e dibattuto tema dell’”unfair advantage” – espressione inglese che potremmo tradurre con “vantaggio sleale” o “iniquo” – è diventato sempre più rilevante. Per un atleta anche un vantaggio minimo può fare la differenza per conquistare una medaglia o raggiungere il podio, ma il confine tra l’uso legittimo di nuove tecniche e il loro abuso è spesso sottile. Definire quindi il limite che fa sì che un aiuto tecnologico non diventi unfair, risulta complesso.

È proprio in questo contesto che la professoressa Silvia Camporesi della Leuven University in Belgio, con cattedra in Sports Integrity and Ethics, ha proposto alla platea di Caffè scienza alcuni degli aspetti etici, regolamentari e giuridici che coinvolgono il problema dello svantaggio leale. Silvia Camporesi è bioeticista con formazione interdisciplinare in biotecnologie e filosofia ed etica della medicina. Ex mezzofondista per la squadra di atletica leggera di Forlì, sua città natale, ha trasformato la sua passione per lo sport nel suo lavoro dedicandosi allo studio delle questioni etiche relative allo sport.

Tra le diverse strategie utilizzate dagli atleti per ottenere un vantaggio, ce ne sono alcune che sono considerate da tutti ingiuste, unfair come il doping. Esistono però anche dei vantaggi definiti naturali ovvero caratteristiche vantaggiose acquisite per nascita, come i livelli elevati di emoglobina nel sangue o alcune caratteristiche genetiche, che portano a specifiche predisposizioni allo sport e quindi considerati equi. Tuttavia, la definizione di ciò che costituisce un “vantaggio sleale” non è sempre così chiara o condivisa. Per spiegare questo la professoressa Camporesi, ha mostrato al pubblico alcuni casi controversi in ambito etico dell’atletica leggera dal 2008 ad oggi, invitando a riflettere su quali potrebbero essere i criteri che determinano un vantaggio iniquo. 

Tra questi il caso di Oscar Pistorius, noto velocista sudafricano con amputazione delle gambe dovuta a una disabilità congenita, che utilizzava protesi come tecnologia assistiva per gareggiare. La sua storia è stata caratterizzata da una lunga battaglia per ottenere la possibilità di competere con gli atleti non disabili. Nel 2007, Pistorius chiese di poter gareggiare ai Giochi Olimpici di Pechino 2008, ma la Federazione Internazionale di Atletica Leggera (IAAF) respinse la sua richiesta, sostenendo che le sue protesi da corsa gli conferivano un vantaggio meccanico superiore al 30%. Nel 2008 Pistorius fece quindi ricorso al Tribunale Arbitrale dello Sport (TAS) che gli diede la possibilità di gareggiare solo nella gara dei 400 metri e solo con le protesi sulle quali erano stati eseguiti i test per il ricorso.

Un secondo caso riguarda Markus Rehm, atleta paralimpico tedesco, specializzato nel salto in lungo. A differenza di Pistorius, Rehm acquisì la sua disabilità a seguito di un incidente durante una gara di wakeboarding, che lo portò all’amputazione di una gamba a 14 anni. Nonostante i suoi successi, la IAAF gli impedì di competere nelle gare per atleti normodotati, negandogli l’accesso alle Olimpiadi. Nel 2016, la IAAF introdusse la “Regola Rehm”, secondo la quale gli atleti muniti di protesi devono dimostrare che la loro tecnologia assistiva non fornisca un vantaggio competitivo. Tuttavia, questa dimostrazione è quasi impossibile, poiché non esiste un modo realistico per confrontare le performance di un atleta con protesi con quelle dello stesso atleta senza di esse.

Il caso della mezzofondista e velocista sudafricana Caster Semenya è altrettanto controverso. Semenya riuscì, per la prima volta nella storia dello sport, a far accogliere il suo appello dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU). La sua storia cominciò nel 2009, quando vinse la medaglia d’oro negli 800 metri femminili ai Mondiali di atletica leggera di Berlino con un ampio vantaggio. Tuttavia, la sua vittoria fu messa in discussione a causa delle sue caratteristiche fisiche, considerate “mascoline”, sollevando dubbi sulla sua identità sessuale. La IAAF sottopose Semenya a una serie di test che rivelarono una produzione di androgeni superiore alla media femminile. Nel 2018, la IAAF introdusse una norma sull’iperandrogenismo, stabilendo che, per competere alle Olimpiadi, le atlete con un livello di testosterone superiore a 5 nmol/litro di sangue dovessero sottoporsi a trattamenti farmacologici per abbassare i livelli di testosterone. Semenya si oppose a questa regola e presentò ricorso al TAS, ma nel 2019 il TAS confermò la validità della norma, costringendo l’atleta a sottoporsi a trattamenti per continuare a gareggiare. Nel 2020, il Tribunale Federale Svizzero respinse la sua richiesta, ma nel 2023 la CEDU condannò la Svizzera, stabilendo che la norma IAAF violava i diritti umani di Semenya, dichiarandola discriminatoria. Tuttavia, il caso è ancora in corso e resta da chiarire se le regole della IAAF verranno modificate.

Infine, reduci dalle ultime Olimpiadi e Paralimpiadi, la professoressa Silvia Camporesi ha richiamato l’attenzione su un altro caso controverso, simile a quello di Caster Semenya: la pugile algerina Imane Khalif, vincitrice della medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Parigi 2024. Khalif, come Semenya, è nata donna ma presenta una condizione di iperandrogenismo e questo ha generato controversie sulla sua partecipazione alle competizioni sportive femminili. Nel 2023, Khalif era stata esclusa dai Mondiali di boxe poiché non aveva superato i test di verifica del sesso, che avevano rivelato la presenza di cromosomi XY, associati agli uomini. Nonostante ciò, la sua partecipazione alle Olimpiadi del 2024 è stata ammessa, suscitando accesi dibattiti sulla sua legittimità competitiva. Molti sostengono che, come nel caso di Semenya, la sua partecipazione possa risultare ingiusta per le altre atlete, in quanto l’eccessiva produzione di ormoni maschili potrebbe conferirle un significativo vantaggio fisico.

Gli esempi proposti dalla Professoressa Camporesi dimostrano chiaramente la tensione tra inclusività e equità. Da un lato, questi atleti possiedono caratteristiche che li rendono unici, siano esse tecnologie assistive o differenze biologiche come livelli elevati di testosterone. Dall’altro, le istituzioni sportive si trovano di fronte alla necessità di garantire competizioni equilibrate, introducendo regolamenti che però rischiano di escludere o discriminare individui sulla base di parametri biologici o tecnologici. Il confine tra vantaggio sleale e legittimo nello sport rimane profondamente incerto e soggetto a interpretazioni divergenti. Le regolamentazioni sportive attuali sembrano essere inadeguate per affrontare la crescente complessità biologica, tecnologica e etica che caratterizza lo sport moderno dal momento che le federazioni sportive si riservano di valutare ogni caso singolarmente, senza criteri chiari e definiti. Per questa ragione è forte la necessità di rivedere norme e regolamentazioni al fine di rispettare i diritti di tutti gli atleti e garantire competizioni eque.

Partire (s)vantaggiati? La questione dell’unfair advantage nello sport tra testosterone, tecnologie assistive e modificazioni genetiche