Comprendere fino a che punto la nostra vita sia “scritta” nel DNA rappresenta una delle questioni più affascinanti e controverse della scienza contemporanea. Il dialogo tra genetica e libero arbitrio si sviluppa su un terreno complesso in cui biologia, neuroscienze, filosofia ed etica si intrecciano. Nel corso della quinta serata di “Caffè Scienza”, Elisa Corteggiani Carpinelli ha accompagnato il pubblico in una riflessione sul rapporto tra libertà personale e determinazione genetica, esplorando quanto le nostre decisioni, la nostra identità e il nostro percorso di vita possano essere influenzati dal patrimonio genetico, e quali implicazioni ciò comporti per il significato stesso di libertà.
Elisa Corteggiani Carpinelli è biologa molecolare, ha un dottorato di ricerca in biochimica e biofisica, dopo alcuni anni di esperienza di ricerca e di insegnamento all’Università di Padova e una breve parentesi all’Imperial College a Londra, si è dedicata all’insegnamento nella scuola secondaria di secondo grado, dove, oltre alla didattica curriculare, porta avanti con i giovani progetti di laboratorio sperimentale e attività di ricerca, fa inoltre formazione ai docenti soprattutto in ambiti interdisciplinari tra chimica, fisica, biologia ed informatica. Elisa è attiva da molti anni nella divulgazione scientifica e collabora a vari progetti di ricerca nell’ambito della biologia, della chimica e della didattica delle scienze.
Il patrimonio genetico determina chi siamo e, quando viene modificato, cambiano anche le nostre caratteristiche. Per introdurre il tema del rapporto tra genetica e identità, La Professoressa Corteggiani Carpinelli ha citato il romanzo Middlesex di Jeffrey Eugenides. La protagonista, nel suo percorso di crescita personale, scopre di essere intersessuale. Questa condizione era già scritta nel suo DNA: una specifica variazione sul cromosoma cinque interagisce con il gene SRY, normalmente localizzato sul cromosoma Y e fondamentale per lo sviluppo degli organi genitali. La sua identità biologica, quindi, era definita fin dall’inizio, ben prima che lei ne diventasse consapevole. Eugenides, autore di origini greche, richiama nel romanzo anche la tradizione classica della predestinazione, un concetto profondamente radicato nella cultura greca antica dove il destino era considerato un elemento ineluttabile, a cui nemmeno gli dei potevano sottrarsi. In questa prospettiva, ciascuno era destinato a compiere un percorso già tracciato, indipendentemente dai propri tentativi di autodeterminazione. Ciò che gli antichi definivano “fato” può essere oggi ricondotto al DNA, con la differenza che oggi ne conosciamo la struttura e comprendiamo la funzione delle sequenze genetiche. Resta tuttavia aperta una domanda: se una parte di ciò che diventiamo è contenuta nel nostro DNA, fino a che punto possiamo realmente sfuggire a quanto è scritto nel nostro patrimonio genetico? E siamo davvero solo ciò che il nostro DNA prevede, o esiste uno spazio di libertà, scelta e costruzione personale che va oltre la biologia?
L’idea che il DNA fosse la molecola contenente l’informazione necessaria a determinare chi siamo si sviluppò nel corso del Novecento. Negli anni ’30, molte persone erano inclini a pensare che tutto ciò che era scritto nel DNA predeterminasse in larga misura le nostre caratteristiche. Questo concetto, in qualche modo rassicurante e deresponsabilizzante, rifletteva la cultura della predestinazione diffusa all’epoca: “sono fatto così, è già tutto scritto”. Esperimenti condotti nel corso del Novecento mostrarono come il DNA sia il principale responsabile delle caratteristiche di un organismo. Nel caso dell’alga Acetabularia, un organismo unicellulare di grandi dimensioni, si osservò che, anche quando parti di cellule di specie diverse venivano fuse, nel tempo l’aspetto dell’alga seguiva le informazioni scritte nel DNA, indipendentemente dalle altre componenti cellulari. In altre parole, il DNA risultava necessario e sufficiente a determinare la forma e il funzionamento dell’organismo. Un esperimento degli anni 2000 approfondì questo concetto: si rese radioattivo il fosforo presente nel DNA e lo zolfo presente nelle proteine di un virus per capire quale molecola fosse responsabile della trasmissione dell’informazione genetica. I risultati confermarono che era il DNA, e non le proteine, a contenere tutte le istruzioni necessarie perché la cellula ospite producesse nuovi virus identici. Successivamente, con l’avvento delle tecnologie di sequenziamento, si è dimostrato che non è più necessario trasferire fisicamente il DNA originario: la sequenza dei nucleotidi può essere letta, memorizzata digitalmente e sintetizzata chimicamente in laboratorio. Quando questa nuova molecola di DNA sintetica viene inserita in una cellula batterica privata del suo DNA originale, la cellula comincia a comportarsi esattamente secondo le istruzioni della sequenza sintetica dimostrando che, la sequenza dei nucleotidi è sufficiente a determinare il comportamento della cellula, indipendentemente dalla molecola originale, confermando il ruolo centrale dell’informazione contenuta nel DNA.
L’idea che il DNA rappresenti l’unico fattore determinante oggi viene messa in discussione: nel libro di Manuela Monti e Carlo Alberto Redi, “Genomica sociale” e di Tim Spector, “Uguali ma diversi” viene mostrato come gli eventi di vita influiscano in modo sostanziale sull’espressione genetica e sullo sviluppo. Parametri quali il luogo di residenza, il tipo di lavoro svolto e le condizioni nutrizionali della madre durante la gestazione possono modificare il rischio di sviluppare determinate patologie, indipendentemente dalla predisposizione genetica. L’esperienza di vita non modifica soltanto l’aspetto fisico o le capacità funzionali, ma può influenzare l’attività del DNA attraverso meccanismi epigenetici. I sistemi biologici, pur basandosi su istruzioni genetiche, non sono programmati per essere rigidi: possiedono una flessibilità che permette all’organismo di apprendere dall’ambiente. Quindi quello che viene effettivamente trasmesso alla generazione successiva non è soltanto il DNA, ma anche una parte delle modificazioni legate all’esperienza di vita, in modo differente a seconda della specie. Nell’essere umano, solo le cellule germinali, ovociti e spermatozoi, sono destinate a generare un nuovo organismo. Al contrario, le cellule somatiche come neuroni, cellule muscolari e ossee, accumulano esperienza e modificazioni in risposta all’attività e all’ambiente, ma non partecipano alla trasmissione ereditaria. È noto che nelle cellule germinali esiste un processo di “reset” epigenetico che tende a cancellare gran parte delle modificazioni acquisite durante la vita dell’individuo, permettendo allo zigote di ripartire con un programma genetico “pulito”. Questo meccanismo, però, non è perfettamente efficiente: una parte delle modificazioni legate alle esperienze di vita, ad esempio quelle determinate da malnutrizione o denutrizione, può essere trasmessa alla prole, influenzando lo sviluppo della prima cellula e quindi dell’intero organismo. Tra tutta l’informazione genetica che possediamo, alcune parti possono essere espresse in misura minore quando viviamo condizioni di stress o infelicità legate al contesto ambientale. Paradossalmente, una persona residente in un Paese occidentale, pur disponendo di migliori risorse economiche, nutrizionali e sanitarie rispetto a chi vive in aree più povere, può comunque sperimentare livelli di disagio analoghi qualora occupi una posizione marginale nella gerarchia sociale e una parte di questi effetti psicofisiologici può essere trasmessa alla generazione successiva. Nonostante ciò, le evidenze suggeriscono che la componente ereditaria dominante rimane quella genetica, mentre le informazioni legate all’esperienza tendono ad avere un effetto transitorio.
Tim Spector, nel suo libro, esplora a fondo la relazione tra patrimonio genetico e ambiente, illustrando attraverso dati e casi concreti quanto ciò che siamo dipenda da entrambi i fattori. Poiché l’essere umano è un organismo estremamente complesso, gli studi sperimentali si basano spesso sui gemelli monozigoti, che condividono lo stesso DNA. I ricercatori confrontano gemelli cresciuti nella stessa famiglia, gemelli cresciuti separati e, parallelamente, fratelli che condividono solo una parte del patrimonio genetico. Se una caratteristica risulta più frequentemente identica tra gemelli monozigoti rispetto ai fratelli, ciò suggerisce una forte componente genetica; quando invece la similarità è più marcata tra individui con esperienze di vita condivise ma con DNA differente, prevale l’influenza ambientale. Prendendo un carattere semplice come il colore degli occhi, questo non dipende esclusivamente dalla genetica, ma la produzione di melanina è modulata dall’esposizione alla luce solare durante lo sviluppo. Prendendo caratteristiche più complesse, come felicità, intelligenza, talento o orientamento religioso, questi temi possono suscitare disagio, perché ipotizzare che tali aspetti siano influenzati dal DNA può minacciare l’idea di libertà individuale. Anche per questi tratti la genetica esercita un ruolo significativo, ma non esclusivo; l’ambiente ha una forte influenza, e a essi si aggiunge un terzo fattore: il caso.
La misurazione dell’intelligenza e delle capacità cognitive viene tradizionalmente associata al quoziente intellettivo (QI). È noto che questa metrica presenta limiti significativi, tuttavia resta una misura altamente riproducibile, supportata da test largamente standardizzati e impiegata da oltre un secolo nella ricerca scientifica internazionale. Numerosi studi, condotti nell’arco di circa cento anni, indicano che il 70% del nostro livello cognitivo misurato attraverso il QI è attribuibile al patrimonio genetico, mentre il restante 30% è influenzato da variabili ambientali e casuali. Tale proporzione sottolinea il peso rilevante della componente ereditaria. Il QI però, non coglie tutte le dimensioni dell’intelligenza. A questo proposito, è stato osservato un fenomeno storico noto come “effetto Flynn”: nel corso del Novecento, i punteggi medi di QI sono aumentati nei paesi occidentali, per poi iniziare a diminuire in contesti caratterizzati da livelli culturali molto elevati, mentre continuano a crescere nei paesi in fase di sviluppo culturale. Questo andamento suggerisce che, pur essendo influenzato dalla genetica, il QI risente anche di fattori ambientali. Studi condotti nel Regno Unito, basati su test scolastici standardizzati hanno mostrato che l’analisi delle performance di studenti appartenenti alle stesse scuole, incluse coppie di fratelli e gemelli cresciuti nello stesso ambiente, mostravano che i risultati sono spiegati in misura maggiore dalle differenze genetiche che non dall’ambiente condiviso. Ciò evidenzia come la componente innata giochi un ruolo sostanziale nello sviluppo cognitivo, questo però non implica che un ambiente uniforme favorisca tutti allo stesso modo: ambienti educativi standardizzati possono risultare ottimali solo per alcuni profili genetici, mentre altri potrebbero non trarne uguale beneficio. Inoltre, la componente ereditata incide sul QI in misura significativa solo quando gli individui vivono in condizioni ambientali adeguate e non deprivate: in presenza di gravi privazioni emotive o nutrizionali, l’influenza dell’ambiente prevale nettamente su quella genetica, comprimendo le potenzialità cognitive. Un ulteriore esperimento condotto nel Regno Unito che ha mostrato la complessità dell’interazione tra genetica e ambiente ha coinvolto un gruppo di studenti sottoposti a una prima prova cognitiva. Successivamente, i ragazzi sono stati divisi casualmente in due sottogruppi, senza alcuna relazione con i risultati ottenuti. Al primo gruppo è stato comunicato che avevano ottenuto buone performance grazie alle loro doti innate; è stato poi proposto loro un test più complesso per “valutare fino a dove potessero arrivare le loro capacità”. La maggior parte dei ragazzi, dopo aver ricevuto questa informazione, ha mostrato esitazione nell’accettare la sfida. Al secondo gruppo, invece, è stato detto che il buon risultato era dovuto all’impegno, alla costanza nello studio e alla capacità di migliorarsi. Anche a loro è stato offerto un test più impegnativo e, in questo caso, gli studenti hanno accettato con maggiore sicurezza. Quando hanno affrontato la prova successiva, non solo hanno partecipato senza esitazione, ma hanno anche migliorato le performance. Al contrario, gli studenti del primo gruppo, convinti di dover “dimostrare” un talento naturale, hanno reagito con ansia alla prova più difficile e hanno performato peggio. Questo esperimento evidenzia come il contesto psicologico e le aspettative ambientali influenzino in modo significativo il comportamento, la motivazione e l’efficacia del processo di apprendimento, anche a parità di condizione iniziale. La percezione delle proprie capacità, modellata dall’ambiente, può facilitare o ostacolare l’espressione del potenziale individuale. Un ulteriore dato empirico riguarda la risposta individuale agli stimoli ambientali. È stato osservato che, in condizioni negative, alcune persone tendono a scoraggiarsi più facilmente rispetto ad altre; allo stesso modo, in contesti positivi, alcuni individui risultano maggiormente stimolati e inclini a migliorare la propria performance. Questa variabilità non è casuale: la predisposizione a reagire in modo più o meno marcato agli ambienti sfavorevoli o favorevoli risulta correlata in misura significativa a fattori genetici. Ciò significa che l’ambiente esercita un’influenza concreta sul comportamento e sulla motivazione, ma la sensibilità individuale a tale influenza è, almeno in parte, determinata biologicamente.
Per quanto riguarda la felicità, la sua misurazione sperimentale è stata storicamente complessa. Alcuni studi hanno analizzato la propensione al riso come indicatore della risposta positiva agli stimoli emotivi. Tali ricerche non si sono limitate all’osservazione del comportamento esteriore, come il sorriso, ma hanno monitorato anche l’attivazione delle aree cerebrali attraverso tecniche di neuroimaging. I risultati indicano che tra l’80% e il 90% della predisposizione individuale a reagire con il riso a stimoli positivi è di origine genetica. In particolare, i gemelli monozigoti mostrano risposte estremamente simili a situazioni comiche, evidenziando l’esistenza di circuiti cerebrali specificamente associati alla risposta gioiosa. Al contrario, la reazione a stimoli negativi coinvolge aree cerebrali differenti e risulta influenzata in misura maggiore dall’esperienza personale e dal contesto di vita suggerendo che, la capacità di ridere possiede un valore evolutivo rilevante, tale da essere preservata nel patrimonio genetico umano come meccanismo adattivo. Per quanto concerne invece la dimensione religiosa, studi condotti su gemelli hanno evidenziato che tra il 40% e il 50% della propensione a sviluppare credenze religiose è riconducibile a fattori genetici. Questo dato mette in discussione l’idea che la scelta religiosa sia esclusivamente frutto di libera decisione individuale. È stato inoltre osservato che, finché i gemelli vivono nella medesima famiglia, i loro atteggiamenti verso la religione tendono a essere simili. Tuttavia, le predisposizioni genetiche emergono con maggiore chiarezza nel lungo periodo, tipicamente tra i dieci e i quindici anni dopo l’uscita dal nucleo familiare di origine, quando l’influenza ambientale familiare diminuisce e i tratti individuali si manifestano più liberamente.
La genetica rappresenta quindi un vincolo strutturale imprescindibile, ma non una condanna immutabile. L’ambiente, le esperienze e il caso modulano l’espressione del nostro potenziale, ampliando l’orizzonte delle possibilità individuali. La libertà non risiede nell’assenza di condizionamenti, bensì nella capacità di agire consapevolmente entro i limiti che ci sono dati. Il nostro destino biologico non è un copione, ma un contesto: a noi il compito di interpretarlo.
