Dilia Giuggioli è Professore Ordinario di Reumatologia presso l’Università di Modena e Reggio Emilia e Direttore della Struttura Complessa a Direzione Universitaria di Reumatologia dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena, Centro di riferimento regionale per la Sclerosi Sistemica. Coordina la Rete Reumatologica Provinciale Modenese Territoriale (REUMA-NETMO). Da molti anni si occupa di Sclerosi Sistemica, che costituisce il nucleo centrale della sua attività clinica e scientifica.
Le malattie reumatiche sono spesso poco conosciute, sebbene accompagnino l’uomo fin dalle origini. Il termine “reumatismo” deriva dal greco rheuma, che significa “flusso” o “scorrere”, in riferimento all’antica teoria degli umori: si credeva che un “umore cattivo” si depositasse nelle articolazioni causando dolore e infiammazione, ciò che oggi chiamiamo artrite. Per curarlo si ricorreva ai salassi, con sanguisughe o incisioni chirurgiche. La storia delle malattie reumatiche è lunga quanto quella dell’uomo stesso: tracce di osteoartrosi sono state individuate nell’ Homo erectus di Giava, e persino Ötzi, la mummia più antica d’Europa, era affetto dalla malattia di Lyme. Anche il faraone Ramses II soffriva di spondilite anchilosante, mentre Galileo Galilei, secondo studi dell’Università di Pisa, divenne cieco a causa di un’artrite reattiva. Molte personalità storiche ne furono colpite: l’imperatore Costantino IX soffriva di artrite reumatoide, e Wolfgang Amadeus Mozart mostrava i sintomi di un reumatismo articolare acuto.
La reumatologia, come disciplina medica nasce nel 1927, quando Jan van Breemen, medico olandese riunì i colleghi che si occupavano delle patologie dell’apparato muscolo-scheletrico. Due anni più tardi, nel 1929, si tenne il primo congresso internazionale di reumatologia, sancendo l’avvio di una vera specializzazione medica. Le malattie reumatiche oggi, restano ancora poco conosciute in Italia nonostante oltre cinque milioni di persone ne soffrono. Si tratta di patologie spesso subdole, con sintomi iniziali aspecifici come dolori articolari, stanchezza e febbricola, che contribuiscono a un ritardo diagnostico medio superiore ai dieci anni. Contrariamente a quanto si crede, non si tratta di malattie esclusivamente legate all’età avanzata: il 40% dei pazienti ha meno di 50 anni, e circa il 20% rientra nella fascia compresa tra i 25 e i 45 anni ed esistono inoltre forme che colpiscono anche in età infantile. Le malattie reumatiche note alla Società Italiana di Reumatologia sono oltre 200. Le più diffuse sono quelle degenerative legate all’invecchiamento, come l’artrosi e l’osteoporosi. Durante la serata di Caffè Scienza, la professoressa Giuggioli ha focalizzato l’attenzione sulle malattie reumatiche infiammatorie sistemiche; malattie che non solo colpiscono le articolazioni, ma anche altri organi e apparati. Tra queste rientrano l’artrite reumatoide, l’artrite psoriasica, la spondilite anchilosante, le vasculiti e il gruppo delle connettiviti, caratterizzate dall’infiammazione del tessuto connettivo, ovvero il tessuto che unisce e sostiene organi e cellule in tutto il corpo. Le principali connettiviti includono il Lupus eritematoso sistemico, la sindrome di Sjögren, le miositi idiopatiche e la sclerosi sistemica.
La sclerosi sistemica fu descritta per la prima volta nel 1754 dal medico napoletano Carlo Curzio, presso l’Ospedale degli Incurabili di Napoli. Nella sua osservazione clinica, Curzio documentò il caso di Patrizia, una giovane di diciassette anni che presentava una condizione insolita: “la pelle ruvida e secca come la corteccia di un albero”. Il medico proseguì descrivendo come “quasi tutto il corpo fosse in quello stato; la pelle tesa e spessa impediva i movimenti comuni, persino l’apertura e la chiusura della mascella. Anche la lingua sembrava contagiata dall’intorpidimento generale dei tessuti, costringendo la giovane a un progressivo immobilismo”. A distanza di oltre due secoli, gli studiosi di sclerosi sistemica riconoscono in quella descrizione gli elementi della definizione moderna di connettivite. Si tratta di una malattia complessa ed eterogenea, sia per l’esordio che per la manifestazione clinica. Pur essendo classificata come rara, in Italia si stimano circa 15.000 pazienti diagnosticati, ma un’indagine del 2022 ha rivelato la probabile esistenza di altrettanti casi non ancora identificati, in attesa di diagnosi o fuori da percorsi terapeutici. In Emilia-Romagna, i pazienti affetti da sclerosi sistemica sono circa 2.500, di cui 600 seguiti presso l’Unità di Sclerodermia di Modena. Il ritardo diagnostico rappresenta uno degli aspetti più critici, in particolare per quanto riguarda il coinvolgimento cardiaco e polmonare. Una volta diagnosticato l’interessamento di cuore o polmone, la sopravvivenza media dei pazienti si riduce a circa tre anni. Le cause della malattia non sono ancora del tutto note; è tuttavia accertato che essa si sviluppa attraverso un processo patologico di natura multifattoriale e multi step. Sono state ipotizzate correlazioni con infezioni virali come citomegalovirus, parvovirus e SARS-CoV-2 e con fattori ambientali, in particolare l’esposizione al silicio. Il meccanismo centrale della sclerosi sistemica è una disfunzione del microcircolo, che coinvolge i piccoli vasi sanguigni. Il fenomeno di Raynaud, caratterizzato dal pallore delle dita al freddo, rappresenta il sintomo di esordio nel 90% dei pazienti. Da questo fenomeno vascolare si innesca la cascata di eventi che porta al coinvolgimento progressivo dei vari organi. Uno studio condotto su 821 pazienti dell’Emilia-Romagna ha mostrato che, oltre al coinvolgimento cutaneo e renale, il 90% presenta alterazioni cardiache, il 65% polmonari e circa il 50% sviluppa ulcere digitali. La sclerosi sistemica compromette profondamente la qualità della vita e i segni clinici più evidenti includono ispessimento cutaneo, retrazione delle mani in flessione, ad “artiglio”, riduzione della rima orale e teleangectasie visibili sul volto e sulle mani.
È in questo contesto che si inserisce il genio di Paul Klee, pittore svizzero-tedesco del Novecento. Klee nasce in una famiglia di musicisti, cresce in un ambiente culturalmente vivace e si dedica alla filosofia, alla musica e alla poesia, scegliendo infine la pittura come mezzo espressivo privilegiato. La sua arte è una fusione originale di espressionismo, cubismo e surrealismo, ma a distinguerlo è soprattutto il profondo legame con la musica e con il colore, elementi che diventano strumenti di indagine interiore e simbolica. Un esempio emblematico è il quadro “Senecio” del 1922, dove colori caldi e forme essenziali delineano un volto stilizzato: occhi a forma di mandorla, naso e bocca ridotti a linee semplici. L’opera richiama i disegni infantili, con la loro purezza e spontaneità, ma anche la ricerca di un linguaggio universale. Lo stesso spirito si ritrova in “Gatto e Uccello” del 1928, in cui toni caldi e freddi si equilibrano evocando sogni, fiabe e ricordi. Nei “Giardini del Sud” del 1919, invece, il colore si fa protagonista assoluto: un mosaico di tonalità ispirate ai viaggi nel Mediterraneo, che esprime la visione umanistica e unitaria del mondo. In “La Macchina da Cinguettio” del 1922, Klee utilizza invece una tavolozza più sobria per rappresentare una gabbia che è in realtà una scatola musicale: gli uccellini, dal becco simile a volti umani, evocano una critica all’industrializzazione che stava trasformando la società tedesca e svizzera del tempo. Il colore ritorna protagonista nella “Signorina” del 1934 e in “Separazione serale” del 1922, dove i colori del giorno e della notte si fondono senza mai incontrarsi, simbolo della distanza irriducibile tra due mondi opposti ma complementari. Nel “Castello e Sole” del 1928 il colore esplode in tutta la sua forza espressiva. Lo stesso Klee affermava: “Il colore mi possiede, non ho bisogno di tentare di afferrarlo: mi possiede per sempre, lo sento”.
Nel 1935, Paul Klee iniziò ad avvertire i primi sintomi della malattia che lo avrebbe condotto alla morte: insensibilità alle estremità, in particolare alle mani, presenza di geloni, disturbi all’esofago con difficoltà nella deglutizione, problemi respiratori crescenti e una rigidità sempre più marcata delle articolazioni e della pelle. Il suo corpo si indebolì gradualmente, il volto mutò: la pelle divenne tesa, la bocca si assottigliò, il naso apparve più affilato. Il primo dipinto realizzato dopo la comparsa della malattia fu “L’uomo segnato” del 1935. L’opera mostra due occhi profondi e interrogativi che emergono da una rete di linee nere, quasi a voler cancellare il volto. I colori, rispetto al passato, diventano più cupi e autunnali, attraversati da toni rossi drammatici e da segni neri marcati, riflesso di una nuova consapevolezza interiore e di un’intensa riflessione esistenziale. Nonostante il peggioramento delle sue condizioni, i polmoni erano ormai gravemente compromessi dal processo fibrotico, Klee continuò a dipingere. Si sentiva in equilibrio precario, come sospeso tra vita e morte, e questa sensazione è al centro del dipinto “L’equilibrio fluttuante”, in cui una figura stilizzata, costruita con poche linee essenziali, tenta di mantenersi stabile su un filo, segno della fragile vittoria dell’artista sulla malattia. Le limitazioni fisiche non soffocarono la sua creatività; al contrario, la ridefinirono, trasformando la sua pittura in un linguaggio ancora più essenziale. Quando il medico gli proibì di fumare e di suonare il violino, Klee reagì con l’opera “L’uomo grigio e la costa” del 1938: in essa, la “costa” è rappresentata da isole proiettate verso un mare, dove al posto delle barche compaiono note musicali; un omaggio malinconico alla musica, ormai lontana dalla sua vita quotidiana. La figura dell’uomo grigio, simile all’artista stesso, esprime la ritirata della vitalità corporea e l’emergere di una visione interiore e simbolica. La malattia, ormai incurabile, plasmò profondamente il linguaggio artistico di Klee. Ne è testimonianza il dipinto “Metamorfosi interrotta” del 1939, dove l’artista si rappresenta “a pezzi”, frammentato come il suo corpo ormai devastato. I tratti diventano minimi, essenziali, segno della difficoltà fisica nel tenere il pennello ma anche della volontà di sintesi estrema. Nel 1940, Klee realizzò “Morte e Fuoco”: un teschio in cui occhi, naso e bocca formano la parola tedesca Tod, ovvero “morte”. L’opera è un vero e proprio autoritratto terminale, in cui la figura dell’artista si fonde con l’idea stessa della fine, divorata dal fuoco. Poco dopo, nel giugno dello stesso anno, Paul Klee morì a Locarno, lasciando un testamento pittorico che trasforma la sofferenza in poesia visiva e consapevolezza universale.
La storia di Paul Klee rappresenta uno dei casi più straordinari in cui arte e malattia si fondono fino a diventare un’unica forma di conoscenza. La sclerosi sistemica, con la sua progressiva trasformazione del corpo, non spense la forza creativa dell’artista, ma ne ridefinì il linguaggio e la visione. Le sue ultime opere, segnate da una tensione estrema tra vita e morte, non sono semplicemente il riflesso di una condizione patologica, ma l’esito di un percorso interiore in cui la sofferenza diventa forma, e la malattia, paradossalmente, si trasforma in sorgente di bellezza e verità. L’incontro tra arte e medicina, come ha mostrato la professoressa Giuggioli, ci ricorda che dietro ogni diagnosi c’è una storia umana e che il linguaggio dell’arte può restituire voce e dignità anche là dove il corpo si spegne.
Quando l’arte incontra la malattia nasce un dialogo profondo tra corpo, mente e creatività. La sclerosi sistemica, complessa malattia autoimmune, non solo altera il corpo ma può trasformare anche il modo di percepire e rappresentare il mondo. Paul Klee, celebre artista del Novecento, ne fu colpito negli ultimi anni della sua vita e la sua produzione pittorica ne porta i segni. La professoressa Dilia Giuggioli, nella seconda serata di Caffè Scienza, ha illustrato come le opere dell’artista siano divenute espressione dell’esperienza della malattia.
Dilia Giuggioli è Professore Ordinario di Reumatologia presso l’Università di Modena e Reggio Emilia e Direttore della Struttura Complessa a Direzione Universitaria di Reumatologia dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena, Centro di riferimento regionale per la Sclerosi Sistemica. Coordina la Rete Reumatologica Provinciale Modenese Territoriale (REUMA-NETMO). Da molti anni si occupa di Sclerosi Sistemica, che costituisce il nucleo centrale della sua attività clinica e scientifica.
Le malattie reumatiche sono spesso poco conosciute, sebbene accompagnino l’uomo fin dalle origini. Il termine “reumatismo” deriva dal greco rheuma, che significa “flusso” o “scorrere”, in riferimento all’antica teoria degli umori: si credeva che un “umore cattivo” si depositasse nelle articolazioni causando dolore e infiammazione, ciò che oggi chiamiamo artrite. Per curarlo si ricorreva ai salassi, con sanguisughe o incisioni chirurgiche. La storia delle malattie reumatiche è lunga quanto quella dell’uomo stesso: tracce di osteoartrosi sono state individuate nell’ Homo erectus di Giava, e persino Ötzi, la mummia più antica d’Europa, era affetto dalla malattia di Lyme. Anche il faraone Ramses II soffriva di spondilite anchilosante, mentre Galileo Galilei, secondo studi dell’Università di Pisa, divenne cieco a causa di un’artrite reattiva. Molte personalità storiche ne furono colpite: l’imperatore Costantino IX soffriva di artrite reumatoide, e Wolfgang Amadeus Mozart mostrava i sintomi di un reumatismo articolare acuto.
La reumatologia, come disciplina medica nasce nel 1927, quando Jan van Breemen, medico olandese riunì i colleghi che si occupavano delle patologie dell’apparato muscolo-scheletrico. Due anni più tardi, nel 1929, si tenne il primo congresso internazionale di reumatologia, sancendo l’avvio di una vera specializzazione medica. Le malattie reumatiche oggi, restano ancora poco conosciute in Italia nonostante oltre cinque milioni di persone ne soffrono. Si tratta di patologie spesso subdole, con sintomi iniziali aspecifici come dolori articolari, stanchezza e febbricola, che contribuiscono a un ritardo diagnostico medio superiore ai dieci anni. Contrariamente a quanto si crede, non si tratta di malattie esclusivamente legate all’età avanzata: il 40% dei pazienti ha meno di 50 anni, e circa il 20% rientra nella fascia compresa tra i 25 e i 45 anni ed esistono inoltre forme che colpiscono anche in età infantile. Le malattie reumatiche note alla Società Italiana di Reumatologia sono oltre 200. Le più diffuse sono quelle degenerative legate all’invecchiamento, come l’artrosi e l’osteoporosi. Durante la serata di Caffè Scienza, la professoressa Giuggioli ha focalizzato l’attenzione sulle malattie reumatiche infiammatorie sistemiche; malattie che non solo colpiscono le articolazioni, ma anche altri organi e apparati. Tra queste rientrano l’artrite reumatoide, l’artrite psoriasica, la spondilite anchilosante, le vasculiti e il gruppo delle connettiviti, caratterizzate dall’infiammazione del tessuto connettivo, ovvero il tessuto che unisce e sostiene organi e cellule in tutto il corpo. Le principali connettiviti includono il Lupus eritematoso sistemico, la sindrome di Sjögren, le miositi idiopatiche e la sclerosi sistemica.
La sclerosi sistemica fu descritta per la prima volta nel 1754 dal medico napoletano Carlo Curzio, presso l’Ospedale degli Incurabili di Napoli. Nella sua osservazione clinica, Curzio documentò il caso di Patrizia, una giovane di diciassette anni che presentava una condizione insolita: “la pelle ruvida e secca come la corteccia di un albero”. Il medico proseguì descrivendo come “quasi tutto il corpo fosse in quello stato; la pelle tesa e spessa impediva i movimenti comuni, persino l’apertura e la chiusura della mascella. Anche la lingua sembrava contagiata dall’intorpidimento generale dei tessuti, costringendo la giovane a un progressivo immobilismo”. A distanza di oltre due secoli, gli studiosi di sclerosi sistemica riconoscono in quella descrizione gli elementi della definizione moderna di connettivite. Si tratta di una malattia complessa ed eterogenea, sia per l’esordio che per la manifestazione clinica. Pur essendo classificata come rara, in Italia si stimano circa 15.000 pazienti diagnosticati, ma un’indagine del 2022 ha rivelato la probabile esistenza di altrettanti casi non ancora identificati, in attesa di diagnosi o fuori da percorsi terapeutici. In Emilia-Romagna, i pazienti affetti da sclerosi sistemica sono circa 2.500, di cui 600 seguiti presso l’Unità di Sclerodermia di Modena. Il ritardo diagnostico rappresenta uno degli aspetti più critici, in particolare per quanto riguarda il coinvolgimento cardiaco e polmonare. Una volta diagnosticato l’interessamento di cuore o polmone, la sopravvivenza media dei pazienti si riduce a circa tre anni. Le cause della malattia non sono ancora del tutto note; è tuttavia accertato che essa si sviluppa attraverso un processo patologico di natura multifattoriale e multi step. Sono state ipotizzate correlazioni con infezioni virali come citomegalovirus, parvovirus e SARS-CoV-2 e con fattori ambientali, in particolare l’esposizione al silicio. Il meccanismo centrale della sclerosi sistemica è una disfunzione del microcircolo, che coinvolge i piccoli vasi sanguigni. Il fenomeno di Raynaud, caratterizzato dal pallore delle dita al freddo, rappresenta il sintomo di esordio nel 90% dei pazienti. Da questo fenomeno vascolare si innesca la cascata di eventi che porta al coinvolgimento progressivo dei vari organi. Uno studio condotto su 821 pazienti dell’Emilia-Romagna ha mostrato che, oltre al coinvolgimento cutaneo e renale, il 90% presenta alterazioni cardiache, il 65% polmonari e circa il 50% sviluppa ulcere digitali. La sclerosi sistemica compromette profondamente la qualità della vita e i segni clinici più evidenti includono ispessimento cutaneo, retrazione delle mani in flessione, ad “artiglio”, riduzione della rima orale e teleangectasie visibili sul volto e sulle mani.
È in questo contesto che si inserisce il genio di Paul Klee, pittore svizzero-tedesco del Novecento. Klee nasce in una famiglia di musicisti, cresce in un ambiente culturalmente vivace e si dedica alla filosofia, alla musica e alla poesia, scegliendo infine la pittura come mezzo espressivo privilegiato. La sua arte è una fusione originale di espressionismo, cubismo e surrealismo, ma a distinguerlo è soprattutto il profondo legame con la musica e con il colore, elementi che diventano strumenti di indagine interiore e simbolica. Un esempio emblematico è il quadro “Senecio” del 1922, dove colori caldi e forme essenziali delineano un volto stilizzato: occhi a forma di mandorla, naso e bocca ridotti a linee semplici. L’opera richiama i disegni infantili, con la loro purezza e spontaneità, ma anche la ricerca di un linguaggio universale. Lo stesso spirito si ritrova in “Gatto e Uccello” del 1928, in cui toni caldi e freddi si equilibrano evocando sogni, fiabe e ricordi. Nei “Giardini del Sud” del 1919, invece, il colore si fa protagonista assoluto: un mosaico di tonalità ispirate ai viaggi nel Mediterraneo, che esprime la visione umanistica e unitaria del mondo. In “La Macchina da Cinguettio” del 1922, Klee utilizza invece una tavolozza più sobria per rappresentare una gabbia che è in realtà una scatola musicale: gli uccellini, dal becco simile a volti umani, evocano una critica all’industrializzazione che stava trasformando la società tedesca e svizzera del tempo. Il colore ritorna protagonista nella “Signorina” del 1934 e in “Separazione serale” del 1922, dove i colori del giorno e della notte si fondono senza mai incontrarsi, simbolo della distanza irriducibile tra due mondi opposti ma complementari. Nel “Castello e Sole” del 1928 il colore esplode in tutta la sua forza espressiva. Lo stesso Klee affermava: “Il colore mi possiede, non ho bisogno di tentare di afferrarlo: mi possiede per sempre, lo sento”.
Nel 1935, Paul Klee iniziò ad avvertire i primi sintomi della malattia che lo avrebbe condotto alla morte: insensibilità alle estremità, in particolare alle mani, presenza di geloni, disturbi all’esofago con difficoltà nella deglutizione, problemi respiratori crescenti e una rigidità sempre più marcata delle articolazioni e della pelle. Il suo corpo si indebolì gradualmente, il volto mutò: la pelle divenne tesa, la bocca si assottigliò, il naso apparve più affilato. Il primo dipinto realizzato dopo la comparsa della malattia fu “L’uomo segnato” del 1935. L’opera mostra due occhi profondi e interrogativi che emergono da una rete di linee nere, quasi a voler cancellare il volto. I colori, rispetto al passato, diventano più cupi e autunnali, attraversati da toni rossi drammatici e da segni neri marcati, riflesso di una nuova consapevolezza interiore e di un’intensa riflessione esistenziale. Nonostante il peggioramento delle sue condizioni, i polmoni erano ormai gravemente compromessi dal processo fibrotico, Klee continuò a dipingere. Si sentiva in equilibrio precario, come sospeso tra vita e morte, e questa sensazione è al centro del dipinto “L’equilibrio fluttuante”, in cui una figura stilizzata, costruita con poche linee essenziali, tenta di mantenersi stabile su un filo, segno della fragile vittoria dell’artista sulla malattia. Le limitazioni fisiche non soffocarono la sua creatività; al contrario, la ridefinirono, trasformando la sua pittura in un linguaggio ancora più essenziale. Quando il medico gli proibì di fumare e di suonare il violino, Klee reagì con l’opera “L’uomo grigio e la costa” del 1938: in essa, la “costa” è rappresentata da isole proiettate verso un mare, dove al posto delle barche compaiono note musicali; un omaggio malinconico alla musica, ormai lontana dalla sua vita quotidiana. La figura dell’uomo grigio, simile all’artista stesso, esprime la ritirata della vitalità corporea e l’emergere di una visione interiore e simbolica. La malattia, ormai incurabile, plasmò profondamente il linguaggio artistico di Klee. Ne è testimonianza il dipinto “Metamorfosi interrotta” del 1939, dove l’artista si rappresenta “a pezzi”, frammentato come il suo corpo ormai devastato. I tratti diventano minimi, essenziali, segno della difficoltà fisica nel tenere il pennello ma anche della volontà di sintesi estrema. Nel 1940, Klee realizzò “Morte e Fuoco”: un teschio in cui occhi, naso e bocca formano la parola tedesca Tod, ovvero “morte”. L’opera è un vero e proprio autoritratto terminale, in cui la figura dell’artista si fonde con l’idea stessa della fine, divorata dal fuoco. Poco dopo, nel giugno dello stesso anno, Paul Klee morì a Locarno, lasciando un testamento pittorico che trasforma la sofferenza in poesia visiva e consapevolezza universale.
La storia di Paul Klee rappresenta uno dei casi più straordinari in cui arte e malattia si fondono fino a diventare un’unica forma di conoscenza. La sclerosi sistemica, con la sua progressiva trasformazione del corpo, non spense la forza creativa dell’artista, ma ne ridefinì il linguaggio e la visione. Le sue ultime opere, segnate da una tensione estrema tra vita e morte, non sono semplicemente il riflesso di una condizione patologica, ma l’esito di un percorso interiore in cui la sofferenza diventa forma, e la malattia, paradossalmente, si trasforma in sorgente di bellezza e verità. L’incontro tra arte e medicina, come ha mostrato la professoressa Giuggioli, ci ricorda che dietro ogni diagnosi c’è una storia umana e che il linguaggio dell’arte può restituire voce e dignità anche là dove il corpo si spegne.
