Negli ultimi anni numerosi studi hanno evidenziato come varianti genetiche di geni legati allo sport possano influenzare aspetti fondamentali della performance atletica, come la forza muscolare, la resistenza, la capacità di recupero e persino la predisposizione agli infortuni. Tuttavia, ridurre il talento sportivo a un semplice “codice genetico” sarebbe una semplificazione: l’allenamento gioca un ruolo determinante accanto a ciò che è scritto nel nostro DNA. Il genetista Mauro Mandrioli, durante la prima serata di Caffè Scienza, ha guidato il pubblico in una riflessione sul rapporto tra DNA e prestazioni sportive.

Mauro Mandrioli è Professore Ordinario in genetica presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Dopo essersi laureato in Scienze Biologiche e aver conseguito il Dottorato di Ricerca in Biologia Animale a Modena, dal 2001 lavora e insegna presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, ricoprendo prima il ruolo di ricercatore e poi quello di Professore Ordinario. Da oltre vent’anni si occupa principalmente di genetica di insetti e batteri di interesse agrario e attualmente è docente di genetica generale, molecolare e microbica nei corsi di laurea in biologia e biotecnologie.

L’interesse del professor Mandrioli per la genetica dello sport nacque sulle gradinate della società sportiva “La Fratellanza” di Modena, mentre seguiva gli allenamenti del figlio che praticava atletica. Osservando i ragazzi in pista, notò che le differenze tra gli atleti erano evidenti: alcuni impiegavano diversi mesi per apprendere un gesto tecnico, mentre altri, già al secondo allenamento, lo eseguivano con naturalezza, come se lo avessero sempre fatto. Queste differenze, quindi, non dipendevano soltanto dall’intensità dell’allenamento, ma lasciavano intuire l’esistenza di qualcosa di innato che contribuisce a spiegarle.

Oggi si parla di talento come un’abilità che può manifestarsi precocemente, anche senza un allenamento specifico. Biografie di grandi atleti come quelle di Jannik Sinner e Gianmarco Tamberi, pur essendo diverse, sono accomunate dal fatto che da bambini non praticavano gli sport che li hanno resi celebri, bensì attività che amavano di più. Eppure, quando si cimentavano nel tennis o nell’atletica, ottenevano risultati pari o superiori a quelli di coetanei che si allenavano in quelle discipline da anni. Il talento, dunque, non solo esiste, ma è qualcosa di innato: una combinazione di abilità e predisposizioni che emergono fin da giovani e che, se indirizzate nel modo giusto, consentono di compiere gesti complessi con naturalezza. Il talento da solo, però, non basta se non è accompagnato dall’allenamento. La letteratura scientifica mostra come questo sia una predisposizione che diventa realmente utile solo se sostenuta da un allenamento adeguato: una capacità naturale che deve essere coltivata. Kobe Bryant affermava che “il duro lavoro batte il talento quando il talento non lavora sodo”. Allo stesso modo, Julio Velasco, allenatore della nazionale italiana di pallavolo femminile, ricorda che per tutti gli allenatori il talento esiste, ma i veri giocatori di talento sono quelli che, pur facendo sembrare facili certi gesti, si allenano con la stessa intensità di chi non possiede quella predisposizione. Rimanendo sullo stesso tema, il professor Mandrioli ha proposto una metafora tratta dal libro “The Gold Mine Effect” di Rasmus Ankersen, dove il talento viene paragonato all’oro nascosto in una miniera. Secondo Ankersen, il talento non capita per caso, ma va scoperto, proprio come l’oro, che rimane nascosto fino a quando non ci si impegna a scavare. Il talento è l’oro, ma per renderlo visibile e utilizzabile bisogna andare sempre più in profondità, fino a estrarre ciò che conta. Tuttavia, scavare solo con impegno non garantisce il risultato: l’oro esiste solo se è realmente presente nella miniera. In questo contesto, i talent scout possono essere visti come geologi, il cui lavoro consiste nel capire dove vale la pena scavare. Allo stesso modo, il genetista esplora il genoma degli atleti per individuare un possibile “filone d’oro”, cercando di comprendere cosa rappresenti questo oro nelle diverse discipline.

La letteratura scientifica che studia le basi genetiche del talento sportivo ha origine negli anni ’50, ma è solo negli anni ’70 che numerosi genetisti iniziarono a indagare il legame tra genetica e capacità atletiche. All’epoca non esisteva ancora la genetica molecolare e non era possibile analizzare gli alleli in modo dettagliato; si lavorava soprattutto sul confronto tra gemelli monozigoti e dizigoti, estendendo poi l’analisi anche ai fratelli. Da questi primi studi emerse che i gemelli identici mostravano concordanze significativamente maggiori in alcune caratteristiche rispetto agli altri fratelli. In particolare, si osservavano tratti biometrici e capacità legate alle performance sportive con una chiara componente ereditaria. Queste ricerche, tuttavia, presentavano due limiti: da un lato, per ottenere risultati affidabili era necessario disporre di un numero elevato di coppie di gemelli, difficili da reperire; dall’altro, le conclusioni restavano generiche e non era possibile individuare la componente genetica. Negli anni ’90, con la nascita della genetica molecolare, divenne relativamente semplice sequenziare il DNA. Nonostante gli strumenti fossero ancora rudimentali, era possibile analizzare solo un gene per volta, o addirittura frammenti di gene. Iniziarono così a emergere correlazioni interessanti: si scoprirono varianti genetiche particolarmente comuni tra atleti di successo, aprendo la strada a un’interpretazione più oggettiva del talento, al di là della semplice percezione soggettiva dell’allenatore. Uno dei geni più studiati in relazione alle prestazioni sportive è ACTN3, che regola la presenza di fibre muscolari a contrazione rapida. Alcune sue varianti favoriscono un’elevata quantità di fibre veloci, mentre altre sono associate a fibre lente. Gli studi condotti negli anni ’90 diedero inizio alla genetica dello sport, emergendo che gli sprinter di élite possedevano più frequentemente la variante che promuove le fibre a contrazione rapida, mentre molti maratoneti presentavano invece la variante legata alle fibre lente. Tuttavia, emersero i primi dubbi: alcuni velocisti di livello mondiale non possedevano la variante genetica ritenuta tipica della velocità, mettendo in discussione l’idea che un singolo gene potesse spiegare da solo le prestazioni sportive. Si era trascurato il concetto di complessità: molte caratteristiche fisiche non dipendono da un solo gene, ma da interazioni complesse tra numerosi fattori genetici e ambientali. L’approccio iniziale, dunque, non era errato, ma risultava parziale. Per questo i genetisti ampliarono la loro prospettiva, analizzando l’intero genoma invece di un singolo gene. Con le nuove tecnologie di sequenziamento divenne possibile confrontare il DNA di centinaia di atleti di élite, osservare tutte le varianti presenti e compararle con quelle di individui non atleti. Oggi sappiamo che oltre 140 geni, con più di 250 varianti genetiche identificate, influenzano in maniera significativa le prestazioni atletiche.

Studi recenti mostrano che gli atleti di élite possono essere considerati, in un certo senso, dei “mutanti”, possedendo mutazioni rare nella popolazione generale che conferiscono loro un vantaggio nelle prestazioni. Quando furono pubblicati i primi dati, ci si accorse però di un errore metodologico: fino a una decina di anni fa i ricercatori tendevano a mettere insieme i genomi di tutti gli atleti di talento, cercando un unico “gene del talento”. Oggi l’approccio è molto più raffinato, perché gli atleti vengono suddivisi per disciplina sportiva e messi a confronto all’interno della stessa categoria. Questo ha fatto esplodere la quantità e la qualità delle correlazioni tra genetica e prestazioni. Analizzando campioni più omogenei, diventa possibile delineare la “ricetta genetica” ottimale per ciascuna specialità sportiva. Inoltre, oggi gli atleti vengono suddivisi anche per origine geografica e, sempre più spesso, per sesso, rendendo i dati ancora più accurati.

Il Professor Mandrioli chiude la serata con cinque considerazioni finali: la prima considerazione è che non esiste una singola “ricetta genetica” per il talento ma esistono assetti genetici diversi che portano a talenti diversi; anche atleti con lo stesso tipo di talento possono avere “ricette” genetiche differenti. I geni mutati coinvolti possono essere diversi, ma devono comunque garantire alcune funzioni chiave. Quello che conta, quindi, non è avere sempre le stesse mutazioni, ma possedere tutte le funzioni necessarie. Al contrario, la mancanza anche di una sola funzione fondamentale compromette le possibilità di vittoria. La seconda considerazione è che vincere è scritto anche nel DNA: Si può “scavare” e allenarsi al meglio, ma serve che ci sia “l’oro” da valorizzare. Questo però, non significa che la genetica prevede con certezza chi vincerà una medaglia olimpica, perché entrano in gioco anche talento e allenamento. Tuttavia, è possibile identificare chi sicuramente non potrà raggiungere certi livelli, perché nel suo DNA mancano elementi indispensabili. La terza considerazione sottolinea che tutti gli atleti di élite sono, in un certo senso, dei “mutanti”: hanno varianti genetiche rare nella popolazione generale, distribuite in modo non uniforme tra le diverse aree geografiche. Alcuni alleli legati alle performance sono più frequenti in certe popolazioni, mentre in altre sono meno comuni; quindi, non si tratta solo di allenamento, ma anche di corredo genetico di partenza. La quarta considerazione descrive come nel genoma degli atleti si possono trovare anche indizi sui rischi per la salute: è stato osservato che, un numero non trascurabile di atleti presenta mutazioni che aumentano la predisposizione a patologie cardiache, difficili da diagnosticare con gli strumenti tradizionali. Inoltre, alcune varianti genetiche sono associate a una maggiore predisposizione a infortuni muscolari o legamentosi, questo significa che un atleta conoscendo il suo profilo genetico potrebbe pianificare gli allenamenti in modo mirato, riducendo i rischi e massimizzando le prestazioni. Infine, non tutti i talenti “pesano” allo stesso modo sul DNA. Più uno sport è semplice e basato su poche capacità specifiche, maggiore è il peso della componente genetica. Viceversa, negli sport complessi entrano in gioco anche molte altre che riducono l’impatto dei geni.

Il talento sportivo nasce quindi dall’interazione tra predisposizioni genetiche e allenamento mirato, dove entrambe le componenti sono indispensabili. Gli atleti di élite possiedono varianti genetiche rare che conferiscono vantaggi specifici, ma il loro sviluppo richiede costanza e metodo e comprendere il profilo genetico di un atleta permette di valorizzare le capacità innate, ottimizzare l’allenamento e ridurre i rischi di infortuni, massimizzando così le prestazioni.

Genetica e sport. E se il talento sportivo fosse scritto nel nostro DNA?