La carne coltivata, nota anche come carne sintetica o in vitro, rappresenta una delle frontiere più avanzate nel campo dell’alimentazione e delle biotecnologie. Questa tecnologia, sviluppata con l’intento di offrire un’alternativa sostenibile alla carne tradizionale, solleva questioni etiche, economiche e culturali, legate alla sicurezza alimentare, all’accettazione dei consumatori e al futuro delle pratiche agricole tradizionali. A parlarci di questo tema, nella quarta serata di “Caffè Scienza”, è Marco Rocca, biotecnologo, Account Manager Research presso l’azienda biotecnologica Miltenyi Biotec, e membro dell’Associazione Minerva.
L’uso del termine “carne sintetica” è improprio, scientificamente indica un prodotto derivato da sintesi chimica; tuttavia, la carne coltivata è un prodotto vivo, che non nasce da sintesi chimica. Il processo di produzione prevede l’uso di cellule prelevate da un animale tramite una siringa simile a un ago aspirato. Le cellule inizialmente prelevate non sono le classiche cellule muscolari o adipose presenti nella carne tradizionale, ma cellule staminali, capaci di replicarsi molte volte e dare origine ai diversi tipi di cellule necessarie per ottenere il prodotto finale. Le cellule vengono coltivate in un brodo ricco di nutrienti all’interno di bioreattori, grandi contenitori in acciaio inossidabile. In passato, questo brodo conteneva componenti animali, ma grazie ai progressi recenti, oggi si utilizzano esclusivamente ingredienti di origine non animale, come vitamine e nutrienti prodotti da batteri o lieviti, questo sviluppo ha consentito di eliminare il sacrificio animale, rendendo possibile la definizione di “carne coltivata” solo di recente, quando si è trovato un metodo per sostenere la crescita cellulare senza ulteriori interventi sugli animali. Dal punto di vista etico, la carne coltivata presenta quindi un significativo vantaggio: dopo l’iniziale prelievo di cellule dall’animale, l’intero processo di produzione avviene senza ulteriori interventi sugli animali stessi.
Attualmente, la carne coltivata non può essere prodotta in Italia, dove è stata vietata la coltivazione, ma potrà essere commercializzata se approvata dall’EFSA, Autorità europea per la sicurezza alimentare, organismo che valuta tutti i nuovi alimenti destinati all’Eurozona. La prima azienda ad aver avviato l’iter di autorizzazione in Europa alla produzione di carne coltivata è l’azienda francese “Gourmey”, che intende superare le pratiche, ritenute eticamente inaccettabili da gran parte della popolazione, utilizzate nella produzione del foie gras. Tradizionalmente questo prodotto viene infatti ottenuto nutrendo forzatamente le oche per ingrossarne il fegato prima della macellazione. “Gourmey” propone un’alternativa più etica, sviluppando il foie gras tramite la coltivazione di cellule epatiche, eliminando così la necessità di alimentare forzatamente gli animali. Nel panorama internazionale, alcuni Paesi hanno già avviato la commercializzazione della carne coltivata: in America, a Singapore e in Israele, piccole aziende e startup stanno producendo e commercializzando questo prodotto; tuttavia, il settore sta affrontando diverse sfide, tra cui l’elevato costo di produzione. L’obiettivo è quello di raggiungere prezzi comparabili alla carne tradizionale, solo se le dinamiche di mercato permetteranno una riduzione dei costi così significativa.
Il tema della carne coltivata viene discusso non solo per motivi etici, ma anche per le sue potenziali implicazioni ambientali. La produzione della carne tradizionale ha un’impronta ecologica significativa: tra i diversi tipi di carne, quella di manzo risulta la più impattante. Le mucche producono molte deiezioni, richiedono ampie superfici di terreno per l’alimentazione, consumano grandi quantità di acqua e contribuiscono notevolmente alle emissioni di CO2 e complessivamente, la produzione di manzo pesa sull’ambiente tanto quanto quella di tutte le altre carni messe insieme, in termini di emissioni per 100 grammi di proteine. D’altra parte, l’impatto ambientale attuale della produzione di carne coltivata si avvicina a quello del pollo, che ha un’impronta relativamente ridotta grazie al minor fabbisogno di spazio rispetto a bovini e suini. Tuttavia, con la produzione su larga scala ancora agli inizi, rimangono molte incertezze riguardo all’impatto ambientale poiché le aziende attualmente coinvolte sono startup e alcune informazioni sui processi di produzione non sono pienamente noti. Pertanto, sebbene questa tecnologia possa rappresentare un’alternativa più sostenibile alla carne tradizionale, l’effettivo impatto ambientale dipenderà da come si evolveranno le tecniche di produzione.
La salute umana, animale e ambientale è strettamente interconnessa, un principio noto come “One Health”, che guida le decisioni dell’Unione Europea e sottolinea l’importanza di considerare la salute globale come un insieme indivisibile, in cui il benessere di tutte le componenti è cruciale. La carne coltivata è rilevante in questo contesto, perché l’allevamento intensivo comporta rischi sanitari significativi, aumentando la probabilità di malattie e zoonosi. In questi ambienti, infatti, si diffondono non solo virus, ma anche batteri, il che rende necessario l’uso di antibiotici e sebbene la quantità di antibiotici nella carne destinata al consumo umano sia regolata per garantire la sicurezza, l’uso massiccio in allevamento può favorire la selezione di batteri resistenti. Questa situazione rende l’allevamento intensivo un problema di salute pubblica. La produzione di carne coltivata in bioreattori potrebbe ridurre la necessità di allevamenti intensivi, abbassando così il rischio di focolai, di malattie e contribuendo al miglioramento della salute animale.
Negli ultimi anni, oltre alla carne coltivata, un altro tema di crescente interesse è quello degli insetti commestibili. In Unione Europea sono già stati approvati per l’uso alimentare, e in Italia alcuni allevatori li producono e commercializzano. Tra le specie consentite vi sono la Locusta migratoria (cavalletta migratoria), il Tenebrio molitor (larva gialla della farina) e l’Acheta domesticus (grillo domestico), che possono essere utilizzati in diverse forme, come essiccati, congelati o in polvere. Questi insetti sono particolarmente adatti all’allevamento, anche su substrati di scarto dell’industria alimentare, offrendo la possibilità di trasformare rifiuti in fonti di proteine commestibili, con benefici ambientali significativi. Oltre all’alimentazione umana, gli insetti possono essere impiegati come mangime per animali da allevamento, con studi che indicano un miglior supporto del microbiota intestinale degli animali alimentati con insetti, ciò potrebbe contribuire non solo alla salute animale, ma anche al benessere umano, attraverso una catena alimentare più sostenibile e sana.
La carne coltivata e l’allevamento di insetti rappresentano due frontiere promettenti nell’ambito dell’innovazione alimentare, con il potenziale di rivoluzionare il settore agroalimentare e promuovere una maggiore sostenibilità. La carne coltivata offre una soluzione etica e sostenibile alla produzione di carne tradizionale, riducendo l’impatto ambientale e i rischi per la salute pubblica associati all’allevamento intensivo; allo stesso tempo, l’allevamento di insetti non solo si configura come una fonte alternativa di proteine per l’alimentazione umana e animale, ma contribuisce anche alla riduzione degli sprechi alimentari, valorizzando i sottoprodotti dell’industria alimentare. Entrambi i settori devono però affrontare sfide significative legate ai costi di produzione, alla regolamentazione e all’accettazione culturale. Con un approccio integrato che consideri gli aspetti ambientali, sanitari ed etici, la carne coltivata e gli insetti commestibili potrebbero rappresentare passi cruciali verso un sistema alimentare più sostenibile e sicuro, in linea con i principi della salute globale “One Health”.