La relazione tra bellezza, evoluzione e selezione sessuale costituisce uno dei temi più affascinanti del pensiero darwiniano. L’estetica, intesa come disciplina filosofica, si rivela infatti capace di dialogare con le scienze biologiche, esplorando il legame tra arte, natura e vita. Durante la serata di Caffè Scienza, Mariagrazia Portera ha proposto una riflessione su come il concetto di bellezza possa assumere un valore selettivo e adattativo, mostrando come gusto, attrazione e percezione estetica si intreccino con i meccanismi evolutivi che guidano la sopravvivenza delle specie.

Mariagrazia Portera è Professore Associato di Estetica presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. Ha svolto attività di ricerca come post-doc in diverse università europee, tra cui Berlino, Zagabria, Rijeka e Edimburgo. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla storia dell’estetica, in particolare quella inglese e tedesca, e sul rapporto tra estetica e scienze naturali/biologiche. È autrice di numerosi saggi e di due monografie: L’evoluzione della bellezza (2015) e La bellezza è un’abitudine (2020). Coordina progetti di ricerca nazionali e internazionali ed è responsabile scientifica dell’“ABC-Lab”, laboratorio dedicato all’estetica e alle Environmental Humanities.

L’estetica, intesa come disciplina filosofica, non coincide con l’apparenza fisica o con la semplice idea di “bello”, ma riguarda il modo in cui percepiamo e reagiamo di fronte al mondo sensibile. Essa comprende anche le modalità con cui siamo attratti o respinti dai corpi altrui, un aspetto che non è esclusivo dell’essere umano ma che accomuna molte specie animali. Darwin aveva una sua concezione dell’estetica: dopo il celebre viaggio sul Beagle, egli si dedicò alla lettura di testi filosofici e di estetica empirica del Settecento, maturando l’idea che il senso del bello non fosse un tratto unicamente umano. Nell’opera L’origine dell’uomo (1871), Darwin propose infatti una tesi rivoluzionaria: la bellezza ha una storia evolutiva che precede l’uomo e si manifesta in molte specie animali attraverso il fenomeno della selezione sessuale. Celebre è la sua frase in una lettera del 1860, in cui affermava: “Ogni volta che vedo una piuma di pavone mi sento male”, a indicare la difficoltà di spiegare, con la sola teoria della selezione naturale, l’esistenza di ornamenti così complessi. La bellezza, dunque, non serve a sopravvivere, ma a riprodursi: diventa un vantaggio evolutivo per quei maschi che riescono ad attrarre le femmine grazie ai propri colori, canti o comportamenti. Darwin osservò come animali quali il pavone, l’uccello del paradiso o l’uccello giardiniere della Nuova Guinea avessero sviluppato comportamenti e ornamenti elaborati per conquistare la compagna. In particolare, l’uccello giardiniere costruisce strutture decorate con rami e oggetti colorati, veri e propri “boudoir” naturali, con variazioni culturali tra popolazioni diverse: un segno di una forma di estetica animale. Questa visione rovescia l’idea tipica della filosofia moderna, secondo cui la bellezza è qualcosa di inutile ma elevato, privo di funzione pratica. Per Darwin, al contrario, l’estetico è profondamente utile, perché ha una funzione biologica chiara e misurabile. La bellezza diventa così un linguaggio naturale dell’eros, un meccanismo di comunicazione tra i sessi che contribuisce alla continuità della vita. In questa prospettiva, la selezione sessuale si affianca alla selezione naturale: se la prima garantisce la sopravvivenza, la seconda assicura la riproduzione.

Secondo Darwin, i “belli” godono di un vantaggio evolutivo significativo: la loro attrattiva consente di assicurarsi l’accesso alla risorsa più preziosa, ovvero la continuità della specie e la trasmissione del proprio patrimonio genetico. Darwin nell’ “L’origine dell’uomo”, riconosce che la sua idea può sembrare paradossale: la bellezza osservata nel mondo animale sarebbe il risultato di generazioni di scelte operate dalle femmine. Con la teoria della selezione sessuale, Darwin cerca di costruire un ponte tra il mondo naturale e quello culturale, mostrando come entrambi rispondano a dinamiche simili di scelta e di evoluzione. Non afferma che tutte le specie sono uguali, ma che esiste una specificità nella continuità, ogni specie è diversa, ma tutte partecipano di un medesimo processo evolutivo. In questa prospettiva, la bellezza non nasce con l’uomo, ma lo precede: è un prodotto dell’evoluzione che si manifesta nel corteggiamento e nella comunicazione tra animali non umani, molto prima dell’emergere della nostra specie. Per Darwin, dunque, non esiste una frattura tra il naturale e il culturale, ma una continuità differenziata, in cui ogni forma di vita contribuisce, secondo le proprie modalità, alla grande storia evolutiva della bellezza.

Darwin era profondamente convinto della validità della sua teoria della selezione sessuale, tanto da scontrarsi con Alfred Russel Wallace, suo coautore della teoria dell’evoluzione per selezione naturale. Wallace, naturalista instancabile, trascorse anni nell’arcipelago malese rischiando la vita più volte pur di osservare dal vivo l’uccello del paradiso, simbolo stesso della bellezza naturale. Tuttavia, tra i due si aprì un forte disaccordo: Wallace sosteneva che la selezione sessuale era solo un aspetto della selezione naturale, mentre Darwin riteneva che i due meccanismi seguissero binari paralleli ma distinti. La questione nasceva da un paradosso evidente: come può il pavone sviluppare una coda tanto appariscente, che ne ostacola la fuga dai predatori? Per Darwin, la risposta stava nella selezione sessuale: la bellezza del piumaggio garantiva al maschio maggiori possibilità di attrarre la femmina e quindi di trasmettere i propri geni, anche a costo di ridurre le probabilità di sopravvivenza individuale. Wallace, invece, giudicava questa interpretazione troppo rischiosa e continuava a ricondurre tutto al principio dell’adattamento. In questa prospettiva, la teoria di Darwin implica che i “brutti” abbiano minori possibilità evolutive, almeno nelle specie in cui la scelta del partner dipende da criteri estetici. Tuttavia, negli esseri umani la questione si complica: fattori sociali, culturali e relazionali intervengono a modificare radicalmente le dinamiche di attrazione. La bellezza fisica perde così la sua assolutezza, lasciando spazio a elementi cognitivi, emotivi e simbolici.

La teoria darwiniana della selezione sessuale implica due principi fondamentali. Il primo riguarda il potere trasformativo della scelta femminile. Quando una femmina di pavone sceglie di accoppiarsi con il maschio dalle piume più appariscenti, esercita un giudizio che, ripetuto per generazioni, rafforza e consolida quei tratti estetici. In termini filosofici, si può parlare di una performatività del giudizio: la valutazione della femmina non si limita a selezionare, ma contribuisce a modificare concretamente il corpo del maschio, influenzandone l’evoluzione. Darwin, in questo senso, riconosce alle femmine, umane e non, una potenza straordinaria: la capacità di orientare la forma stessa della vita. Non sorprende, dunque, che in epoca vittoriana la teoria della “female choice” sia stata accolta con forte resistenza. L’idea che la femmina detenesse un potere tanto decisivo nella selezione e nella trasformazione della specie appariva inaccettabile per la mentalità dell’Ottocento. Tuttavia, Darwin continuò a difendere con convinzione la propria posizione fino agli ultimi anni di vita. Il secondo punto riguarda la natura relazionale della bellezza. Per Darwin, non esiste bellezza in senso assoluto: essa si manifesta solo nella relazione, nell’incontro tra chi esprime un tratto ornamentale e chi è in grado di percepirlo e valutarlo. La bellezza è un fenomeno interattivo, che nasce dallo scambio di sguardi, giudizi e scelte tra due corpi. Questa visione, che anticipa concezioni estetiche molto contemporanee, attribuisce al bello una dimensione dinamica e partecipata. Darwin sottolinea inoltre che la bruttezza non è una categoria fissa o universale: il gusto femminile è mutevole, capriccioso, e ciò che risulta attraente può variare in base al contesto e al momento evolutivo. Da questa prospettiva, emergono conseguenze legate alla centralità della bellezza nel mondo naturale e, per estensione, in quello umano, che risultano sorprendenti rispetto al modo in cui siamo soliti concepire il “bello” nella natura.

Darwin parlava di una bellezza definita intraspecifica: quella che si manifesta all’interno di una stessa specie, quando un maschio sviluppa ornamenti elaborati per attrarre la femmina. Tuttavia, come spiegare la bellezza interspecifica? Perché anche l’uomo, appartenente a un’altra specie, trova bello un pavone, una farfalla o un paesaggio montano? Darwin stesso affronta questa questione, ipotizzando una pluralità di cause: distorsioni percettive, influenze culturali, o una combinazione di fattori che guidano lo sguardo verso certi aspetti del mondo naturale. In sostanza, ciò che consideriamo “bello” dipende da come la nostra mente, filtrata da abitudini, cultura e sensibilità, orienta la percezione e seleziona ciò che merita attenzione, ma questa spontaneità estetica può essere insidiosa se non viene accompagnata da consapevolezza; infatti, molta della bellezza naturale che oggi ammiriamo è una bellezza in pericolo. L’intervento umano, soprattutto negli ultimi due o tre secoli, ha inciso in modo così profondo sugli ecosistemi da mettere a rischio proprio quella meraviglia che tanto celebriamo. Darwin e, ancor più, Wallace ne erano consapevoli: Wallace, nei suoi diari dell’arcipelago malese, scriveva che forse era un bene che fosse così difficile raggiungere quei luoghi remoti, perché se fossero stati più accessibili, la loro bellezza sarebbe scomparsa in breve tempo. È una profezia che oggi si è avverata: stiamo cancellando progressivamente la bellezza del pianeta con la goffaggine di “elefanti in una cristalleria”. Siamo chiamati, dunque, a un compito etico: tutelare e difendere ciò che ci incanta.

Una dei temi di ricerca di cui si occupa la professoressa Portera, insieme a biologi conservazionisti a Firenze è il ruolo della bellezza e del bias estetico nella tutela della biodiversità. Si tratta di un argomento di grande attualità che evidenzia come l’essere umano, anche quando agisce con l’intento di proteggere la natura, finisca spesso per farlo in modo selettivo, privilegiando le specie che considera più belle. Questo meccanismo, definito come un vero e proprio bias estetico, rappresenta un problema etico e scientifico: nel nostro desiderio di conservare la bellezza del mondo naturale, rischiamo di preoccuparci soltanto delle specie “piacevoli”, dimenticando quelle meno appariscenti o esteticamente sgradevoli, che possono avere un ruolo ecologico fondamentale. Quindi, “che fine fanno i brutti?”, cioè tutte quelle specie la cui mancanza di fascino visivo le condanna a un destino di invisibilità anche nelle politiche di conservazione. A Firenze, la professoressa Portera utilizza per i suoi studi le farfalle, considerate un ottimo animale modello per l’analisi della biodiversità, data la loro funzione di indicatori ecologici sensibili. Tuttavia, anche tra le farfalle, gli esseri umani tendono a concentrare l’attenzione e gli sforzi di tutela solo su quelle più appariscenti. Un esperimento, condotto su un campione di circa 15.000 persone, ha chiesto ai partecipanti di indicare le specie di farfalle che trovavano più belle: incrociando i risultati con la Direttiva Habitat europea del 1992, che elenca le specie protette, è emerso che le preferenze estetiche dei partecipanti coincidono ampiamente con le scelte ufficiali delle istituzioni. Ciò dimostra che anche le normative europee per la conservazione risentono di un pregiudizio estetico implicito. I finanziamenti, le politiche ambientali e perfino la produzione scientifica tendono a concentrarsi su specie “belle”, a discapito di quelle meno accattivanti ma ecologicamente cruciali. Esiste una “rete della bellezza”, un sistema nel quale la percezione estetica umana influenza indirettamente l’intera catena di conservazione dalla ricerca al finanziamento, fino alle leggi. In questa prospettiva, l’idea di Darwin secondo cui la bellezza non è un elemento superfluo ma una forza evolutiva e relazionale trova una nuova conferma: la bellezza non è solo un attributo estetico, ma un principio che orienta l’esperienza e le scelte dell’essere umano. Questo potere della bellezza però, può trasformarsi in un rischio se non accompagnato da consapevolezza critica.

Rachel Carson, pioniera dei movimenti ambientalisti statunitensi, autrice di Primavera silenziosa (1962), mostrò come l’intervento umano, attraverso l’uso del DDT e di altri pesticidi, avesse non solo effetti devastanti sugli ecosistemi, ma anche un impatto estetico: la natura privata dei suoi suoni e della sua vitalità perdeva la propria “bellezza viva”. In un suo successivo scritto, The Sense of Wonder, individua nel senso di meraviglia, una forma di apertura estetica verso ciò che è diverso, inatteso e complesso, la chiave per ricostruire un rapporto più autentico e rispettoso con la natura e proprio questo senso di meraviglia può essere la chiave per riabilitare il “brutto” nella natura. Le specie non conformi ai nostri canoni estetici possono diventare occasioni di sorpresa, curiosità e scoperta: elementi attraverso cui rieducare lo sguardo umano a un’estetica della diversità.

Nel mondo contemporaneo, la sfida è dunque duplice: da un lato, riconoscere l’influenza pervasiva della bellezza sulle nostre scelte, dall’altro ampliare il concetto stesso di bellezza, includendo anche ciò che non rientra nei canoni consueti. Solo così si potrà costruire una vera estetica della natura contemporanea, capace di unire la lezione di Darwin con la consapevolezza ecologica del presente.

…e i brutti? Darwin, la bellezza e la selezione sessuale